A COSA SERVE?
Siete in classe, prese dall’ispirazione che la poesia di Ungaretti inietta nella voce durante la lettura. Silenzio. Poi si alza una mano e parte la domanda: “ma tutto questo a cosa serve?” Scende sulla testa lo sconcerto. Alcune altre voci in fondo all’aula si uniscono alla domanda. Ancora silenzio. Intanto si mette a lavorar il vostro ragionamento che porta subito a realizzare che loro, i giovani che stanno in classe con voi, hanno completamente assorbito la lezione, ma quale? Quella dettata dalla cultura della tecnica che onora la divina e unica logica esistente, la logica dell’utile. Servo dunque esisto. Il senso dell’utile ancorato alla scuola mi ha fatto saltare in mente le parole di un grande filosofo, un visionario che quarant’anni fa prefigurava scene simili a quelle che stiamo vivendo. Quali? Ora ve le descrivo. Dunque, come sapete, è da quest’anno che l’introduzione quasi capillare dell’uso del registro elettronico insieme a LIM, schermi interattivi, videoproiettori spinge i docenti ad aggiornarsi, a innovarsi imparando a fare funzionare i nuovi strumenti e i nuovi ambienti di apprendimento. A scuola la maggioranza dei corsi di formazione proposti ai docenti sono e saranno dedicati all’insegnamento dell’utilizzo delle nuove tecnologie applicate alla didattica. Non si vedono corsi di aggiornamento sulla disciplina di insegnamento, sulla storia contemporanea, sulla psicologia delle emozioni, sull’analisi comparativa tra lo stile di Ungaretti e quello di Montale, no. Si deve lavorare sulle tecniche, sui metodi ispirati alle innovazioni digitali. Gli insegnanti vengono aggiornati ripetutamente non tanto sul cosa ma sul come insegnare. Usare immagini, animazioni, power point, programmi di scrittura interattiva. Il metodo deve cambiare. Non siamo più noi docenti al centro e neppure la disciplina ma il metodo che gira intorno a studenti e studentesse che, a loro volta, impareranno che solo ciò che è utile in modo concreto e dimostrabile è degno dei loro sforzi. Colpisce che questo quadro era stato già ritratto, come dicevo prima già molti anni fa, da Jean Francois Lyotard che nel 1979, nel suo La condizione postmoderna, scriveva: “Dal momento che le conoscenze sono traducibili in linguaggio informatico, e dal momento che il docente tradizionale è assimilabile a una memoria, la didattica può essere affidata a macchine collegate a delle memorie classiche (biblioteche, ecc.) così come le banche di dati possono essere collegate a terminali intelligenti messi a disposizione degli studenti.” Quindi la meccanizzazione della didattica, l’uniformazione delle procedure dell’istruzione erano state già ampiamente previste dall’autore che chiude con una riflessione abbastanza sconfortante: “La pedagogia non ne dovrà necessariamente soffrire, chè in ogni caso bisognerà insegnare qualcosa agli studenti: non i contenuti, ma l’uso dei terminali, cioè dei nuovi linguaggi”. Quindi non si insegnano i pensieri ma i mezzi e gli strumenti per comunicare. In ultimo ciò che studenti e studentesse dell’epoca postmoderna di Lyotard chiederanno non sarà più “è vero?” ma: “a cosa serve?” A cosa serve studiare Dante? A cosa serve imparare una poesia? Queste domande sono ricorrenti e dichiarano lo svuotarsi del senso dello studio finalizzato al piacere e alla bellezza in sé, per fare spazio all’attenzione sugli effetti dell’utilità del lavoro fatto. C’è da pensare, e da reagire. Ovviamente noi remiamo lungo una diversa corrente, ovviamente noi non vogliamo naufragare nel mare dell’informatica. E’ lei che serve noi, è lei che serve il sapere che incarniamo e le relazione che costruiamo, ogni santo giorno, con la gioventù tecnologicamente avanzata ma infinitamente assetata, senza saperlo, di senso e di densità vitale.
Cristiana La Capria