IMPICCATO
Aprirono piano la porta di casa, dentro tutto appariva immobile tranne le luci dell’albero che lampeggiavano in sala. Era l’alba. Mentre i genitori andarono in camera a riposare, stanchi del lungo viaggio, Lea era troppo eccitata per dormire, rimase davanti al portico a giocare con la neve. Tirò fuori dal suo zaino Eddy, gli accarezzò il pelo liscio, gli strinse al collo la fiaschetta e lo sistemò in cima alla legnaia – Così da quassù puoi controllare se qualcuno ha bisogno del tuo aiuto – gli disse.
Aveva desiderato con tutte le forze quel peluche, rimanendo impalata per quasi un’ora, la sera prima, a fissare la vetrina del negozio di giocattoli vicino casa sua a Bolzano; aveva sentito il petto pulsare di gioia quando i genitori si erano decisi a comprare quel cane. Finalmente non sarebbe più stata sola. E, adesso che era arrivata alla casa della nonna in un paesino vicino L’Aquila, non vedeva l’ora di presentare il suo amico a tutta la famiglia, soprattutto ai due cugini francesi, Jean e Lucien, che incontrava una volta l’anno.
I bagliori dell’alba stavano rischiarando il tetto. In attesa che tutti si svegliassero, Lea aveva costruito davanti alla porta d’ingresso un pupazzo di neve, al posto della carota aveva usato un rametto per il naso e delle caramelle colorate per gli occhi, glielo aveva suggerito Eddy.
Quando finalmente arrivò l’ora di colazione, tutti sedettero intorno alla tavola. Zia Tullia non smetteva di raccontare la storia della sua ultima conquista, zio Fausto e zia Blanche leggevano in silenzio il giornale, Jean e Lucien sorseggiavano il latte, la nonna distribuiva fette della sua torta al cacao mentre mamma e papà continuavano a sbadigliare. Finalmente tutti insieme. Era la Vigilia di Natale. La giornata passò giocando, Jean e Lucien insieme a Lea e ad Eddy si arrampicarono sulla collina, fecero le capriole, si lanciarono le palle di neve. E poi a rincorrersi nel granaio, nascondersi dietro i tronchi degli alberi. Quanto era bello passare il Natale con i cugini francesi, non servivano parole per capirsi, si giocava e basta. Poi venne il momento di andare a messa con mamma e papà. Lea non ne aveva nessuna voglia, ma a sei anni non si può decidere di passare tutto il pomeriggio giocando, si fa quel che i grandi dicono. Lasciò Eddy seduto sul suo letto – Torno presto, aspettami – gli accarezzò le orecchie lunghe e lo baciò sul naso. –Ci occupiamo noi di lui, non ti preoccupare – la rassicurò Lucien, il più grande.
Dopo la noiosa funzione, Lea aiutò i genitori con le ceste di cibo da regalare agli amici del posto, bisognava far loro una visita per gli auguri natalizi. Tutti vollero offrire del pane caldo, del formaggio e del vino; il tempo passava tra una chiacchiera e una risata, Lea era irrequieta. Finalmente alle otto di sera ritornarono a casa. La nonna, aprendo la porta, mostrò il viso spento, disse che Fausto e Blanche erano dovuti tornare in Francia, la mamma di lei aveva avuto un infarto. Pessima notizia. I cugini erano andati via. Che silenzio, pensò Lea, la casa si era svuotata. Allora si precipitò da Eddy per farsi confortare, ma sul letto non lo trovò. –Eddy, dove sei? – chiese mentre controllava sotto il letto, sugli scaffali, dentro l’armadio. Poi sollevò gli occhi. Lo vide. Una corda veniva giù dal soffitto, stretta attorno al collo del peluche che stava sospeso nel vuoto, la fiaschetta era finita in un angolo della stanza. Lea fissò quell’oggetto ormai opaco che la guardava immobile, e si morse le labbra, tremava. Poi spinse una sedia al centro della stanza, ci salì per liberare dalla corda il collo del suo amico, la testa cedette penzolando da un lato, le cuciture erano slabbrate. Eddy era stato asfissiato, gli occhi ormai bui. Lo tenne tra le braccia e lo scrollò con forza– Eddy, cosa ti è successo?
– Saranno state le due pesti – disse la nonna entrando nella stanza – li ho visti io giocarci – Lea sentì una fiamma bruciare nel petto, avrebbe voluto strappare i capelli di quei due traditori – Hanno impiccato Eddy! – gridò, le guance divennero paonazze.
– Ma dai, che non è successo niente di grave, lo sai che i maschietti sono dispettosi – commentò la madre che pure era accorsa nella stanza; poi prese il peluche e lo portò sotto la luce della lampada – Non è così rovinato – disse, dopo aver controllato le cuciture – Adesso ti faccio vedere che torna come nuovo – e allacciò la fiaschetta al collo flaccido del cane.
Lea sentì lo stomaco sottosopra. La mamma stava difendendo i due vigliacchi. Prese tra le braccia Eddy, ormai svuotato di ogni bellezza. Allargò la bocca aspirando tutta l’aria possibile – Non capisci che lo hanno impiccato? – soffiò le parole con voce tremula, che non era più la sua, si inginocchiò sul pavimento coprendo con le mani gli occhi bagnati. E poi smise di parlare. Neanche un suono venne più fuori per tutto il tempo in cui rimase in quella casa. L’ultimo giorno si avviò tutta sola verso l’abete vicino al porticato, scavò una piccola fossa e depose Eddy avvolto dentro la sua sciarpa di lana preferita. Sopra ci piantò una croce fatta di due piccoli bastoni tenuti fermi con un cordino e appese un biglietto chiuso in una busta con su scritto Eddy vivrai per sempre.
Non tornò più nella casa della nonna, che morì due mesi dopo. Non incontrò più né gli zii né i cugini di cui non volle più sapere niente. Fino ai suoi diciotto anni. La mattina di Natale trovò di fianco al suo letto una grande scatola infiocchettata. Sotto uno strato di cioccolatini svizzeri, i suoi preferiti, spuntarono due triangoli bianchi e pelosi. Erano le orecchie di un peluche, un husky dal pelo d’argento, il muso morbido. Al collo aveva una fiaschetta, dentro un bigliettino di carta a forma di cuore diceva: Non sono Eddy, però …
Rilesse il biglietto, la fronte cominciò a bollire. Strappò il pezzo di carta, lanciò la fiaschetta lontano e strinse il collare al massimo facendo un nodo e poi un altro all’altezza della nuca del peluche. Fissò per parecchi minuti quel cane, in preda a un caos di sentimenti. La madre bussò alla porta, si sporse dentro – Hai visto che sorpresa ti hanno fatto i cugini? – domandò in tono cauto. Non ebbe risposta. L’aria tetra della stanza era irrespirabile. Fece qualche passo verso la figlia, impalata davanti al letto con le mani intorno alla gola dell’husky. La ragazza si voltò di scatto verso sua madre, complice dei suoi nemici, e con lo sguardo le ruggì contro.
– Lascia stare il collo di questo cane, è un dono –, la donna si avvicinò a sua figlia fino a sfiorarle le braccia – Accetta questo cagnolino. Evidentemente questo è il massimo che sono riusciti a fare i tuoi cugini per farsi perdonare, dopo tanto tempo da quell’orrendo dispetto.
Lea sentì le mani calde della mamma posarsi sulle sue, ancora contratte e avvitate alla gola pelosa. Trattenne il respiro. Sua mamma aggiunse – Perdona quei due, Lea. Non lasciarti impiccare per la seconda volta! – Quelle parole entrarono nei timpani poi, piano piano, lettera dopo lettera, si dilatarono nel cervello. A quel punto Lea allargò le narici, fece entrare tutta l’aria possibile nei polmoni, sentì i muscoli delle dita rilassarsi fin che le mani mollarono la presa. Il cane, liberato, piombò sul pavimento. La madre sospirò, la tensione dei suoi muscoli si allentò. Finalmente si ragionava. – Mi lasci da sola? – chiese Lea, aveva la fronte umida di sudore. – Certo – la madre accennò un sorriso e uscì dalla stanza chiudendo la porta dietro di sé. Lea allora sollevò l’husky da terra e fissò i suoi occhi sbarrati – Fai bene ad avere paura, cagnolino: tra poco non avrai più il collo – annunciò, continuando a stringere. Poi andò a girare la chiave nella serratura – Stavolta nessuno ti verrà a salvare – promise. Le lacrime le avevano gonfiato gli occhi.
Cristiana La Capria