CAFARNAO
– di Nadine Labaki, Libano 2018, durata 2h 30 m –
Cose di un altro mondo
A chi?
A chi, dai 14 anni in su, abbia la voglia di conoscere cose di un altro mondo. Che è fatto di umani adulti atrocemente impreparati a farsi carico degli umani piccoli. Un’esperienza indimenticabile,
Perché?
Per aprire gli occhi lasciandosi inondare dal gettito emotivo che proviene dalla deprivazione e dall’incuria in cui sono costretti a affogare tanti minori per colpa di adulti che seguono come orologi svizzeri il circolo vizioso in cui il padre fa al proprio figlio ciò che ha subìto dal proprio padre, senza soluzione di continuità. Sarà un minore a interrompere il circuito e a dare una dolorosa lezione a tutti quelli (tantissimi) non sanno come è fatta una relazione.
La storia
Si deduce che Zain abbia circa dodici anni, lo dicono le ossa e la dentatura, non i documenti, né i genitori che, tra tanti figli al seguito, non possono mica ricordare di preciso un dettaglio del genere. Per questo Zain li cita in tribunale, i genitori, perché smettano di fare figli a cui rovinare la vita come hanno fatto a lui che, da quando è stato messo al mondo, si è sentito gettato dentro a un “capharnaüm”, un inferno. Siamo in Libano, nel sottoscala della miseria sociale e morale, dove i bambini e le bambine sono merce, i maschi sono forza lavoro, le femmine spose-bambine. Vite sgangherate, trascinate dentro luoghi scomposti, promiscui, squallidi, infetti. Nessuna cura, nessuna carezza. Solo urla, schiaffi e sguardi amari. Zain non ce la fa più, non accetta che la sorella minore diventi la donna di un quarantenne. Si ribella, ma invano. Allora se ne va via di casa, alla ricerca di una serenità sognata. La sua immensa intelligenza e la precoce esperienza gli aprono strade dove un’altra storia è possibile, forse.
I temi
Le inquadrature si muovono dentro a interni asfissianti e lungo strade strette, zeppe di gente. Si è in troppi, quindi un bambino in più o in meno non fa la differenza. Si muovono da soli tra la folla, già in grado, a cinque anni, di vendere succhi di frutta al mercato e sciogliere polverine di sostanze psicoattive dentro a bacili di acqua, addormentarsi e svegliarsi da soli, al solo suono di un comando a distanza, quello della madre seduta nell’altra stanza. Non esiste relazione tra adulti e minori, tra genitori e figli, tutto è affossato nell’opaco dell’ignoranza e della solitudine che si riproduce e si ripete di generazione in generazione. Ma un minore esprime la forza di cambiare, si prepara a combattere, impara da solo a difendersi. E a difendere chi ama, la sorella, il bimbo rimasto senza madre.
Il film
Il tempo e lo spazio sono maneggiati con cura, definiti in modo da lasciare venir fuori la crudezza di un mondo che si fa del male. Dove la nostra vista viene accesa dal luccicare dell’arguzia di un ragazzino straordinario, capace di affrontare un’infame lotta per la sopravvivenza, di trovare la via per attraversare la giungla senza mai diventare cattivo.
Le riprese inquadrano luoghi e volti senza andarci troppo vicino. Sono riprese leali, lasciano allo sguardo uno spazio di sospensione, una via morbida per assorbire con delicatezza pezzi di realtà indigesti. Le riprese fanno parlare le immagini al punto che chi vede può sentire, al tatto, tutto lo spessore della poesia.
Cristiana La Capria