– di Cristiana La Capria –
Non possiamo smettere di fare esperienza dello spazio. Ma la scuola non lo permette, quasi più. Stamattina ascoltavo una trasmissione su Radio tre che riportava una discussione accesa intorno gli effetti della riduzione delle ore di geografia voluta dal riordino di due anni fa dell’istruzione degli Istituti Professionali e Tecnici. A seguito della solita svendita delle discipline di insegnamento che imperversa in quel mercatino delle ore che è la scuola e di cui abbiamo già ragionato, ecco che salta fuori un altro enorme problema: lo sbriciolamento del tessuto del sapere in un lungo elenco di materie distribuite su un brevissimo numero di ore con un forte dimagrimento nel calendario settimanale del tempo di studio per approfondire e un dilatarsi in orizzontale di sfilze di discipline svendute, messe in saldo . Continua l’incalzante politica del di tutto un po’ che ammazza ancora un’altra scienza sociale come la geografia, capace di mettere in connessione il corpo e lo spazio e le articolazioni del loro rapporto. Perdendo tempo di insegnamento della geografia si perdono occasioni. Non solo lo spazio della mente prende forma in rapporto a come viene organizzato e conosciuto lo spazio intorno – e questo lo dovrebbero sapere bene le insegnanti delle primarie che, quando possono, guidano alunni e alunne nell’articolazione dei colori, dei suoni e degli odori che connotano quel particolare posto (anche solo il cortile della scuola) dove sono stati. Non solo le piccole tattiche di orientamento applicate al territorio di residenza danno ai giovani esploratori ed esploratrici il senso dell’avventura, del movimento, delle direzioni giuste e sbagliate, di quelle che fanno perdere la bussola ma fanno divertire. Non solo il provare a raffigurare sul foglio la pianta della propria casa sviluppa il senso delle dimensioni e la consapevolezza che la mappa non è il luogo, ma una sua rappresentazione. Non solo questo sarebbe stata la geografia, ma anche, per chi è adolescente, sapere decifrare dei simboli che non sono solo coordinate numerate e geometrie misurate ma connessioni tra culture e climi, tra politica e storia, tra confini ed economia, tra memoria e potere. Tutto ciò non sarà più possibile impararlo, e non solo perché il triennio delle scuole superiori va perdendo ore di insegnamento ma anche perché ad insegnare la geografia non saranno più le insegnanti specializzate in geografia, quelle della classe di concorso A039 ma, come ci ricorda la collega Paola Pepe che è docente di geografia in un Istituto Tecnico Nautico di Palermo, saranno insegnanti afferenti ad altre classi di concorso che insegnano discipline storiche o scientifiche. Insomma la materia geografica va dissolvendosi, lentamente diluita nelle acque di altre discipline e con essa vanno persi sia posti di lavoro sia dimensioni di esperienza imprescindibili. D’altronde anche le scuole medie, pochi anni fa, hanno patito una scandalosa riduzione del tempo d’insegnamento da due a un’ora settimanale; riduzione spesso seguita dagli urrà di molti studenti e studentesse che finalmente si liberano di un fardello, perché giudicano inutile la geografia dato che adesso hanno il navigatore satellitare incastonato nell’auto di mamma e papà. Ma questo poi tocca la questione di come viene insegnata la geografia che è un altro problemone irrisolto e che è la causa di reazioni di esultanza di alunni/e alla notizia della compressione della geografia perché di essa, purtroppo, noi docenti facciamo conoscere solo pagine tristi di manuali alienanti. Ed è un peccato, perché oggi le risorse tecnologiche immense consentirebbero di dilatare la possibilità di conoscere, avventurarsi ed esplorare i posti, quelli propri e quelli lontani; giocare e capire la complessità dello spazio. Ma questa necessaria esperienza ci viene tolta. C’è da arrabbiarsi, e di brutto.