DAD: UN TRASLOCO SENZA SANGUE NEL MONDO DEI PIXEL

– Ecco qui un’intervista dedicata a voi che avete sentito addosso gli effetti della didattica a distanza –

 

In questa nuova “obbligata” dimensione del distanziamento che passa attraverso gli strumenti digitali, come viene giocata la reciprocità nella quotidianità del lavoro educativo e sociale?

Faccio l’insegnante, quindi ogni giorno l’aria che inspiro viene inspirata contemporaneamente da circa altri 25 soggetti. Devo usare l’imperfetto, però. Siccome non condividiamo più uno spazio fisico e quindi l’ossigeno non è più cosa comune, ecco che quella bella parola che è “il reciproco” cade letteralmente sul pavimento e si frantuma. Il gruppo ed io siamo dislocati, dispersi, distratti. Da cosa? Dal fatto che adesso ciascuno di noi, ogni mattina, deve vivere una reciprocità obbligata non con l’altro, e neppure con se stesso, ma con il proprio dispositivo elettronico: accendi il monitor, premi il link, inserisci il codice, avvia. Puntualità, microfoni, spenti, telecamera accesa. Il residuo del tempo è dedicato a riconoscere nei simulacri sullo schermo i volti di coloro che fino a prima inspiravano ed espiravano contemporaneamente a me la stessa aria. Il resto è solo un residuo di memoria di quella reciprocità che ciascuno e ciascuna di noi in classe ha dell’altro/a.

 

Quali effetti produce il setting della piattaforma utilizzata per portare avanti la tua professione a distanza?

Il setting viene stabilito dalle regole di funzionamento del servizio di teleconferenza usato. Appena scattò il lockdown, lo scorso marzo, ricordo che tra docenti era tutto uno scambio di informazioni sulla marca usata per le video lezioni. Io uso Zoom. Davvero? No, noi preferiamo Meet. Assolutamente il migliore è Cip, anzi Ciop. Queste sigle hanno invaso il setting, lo hanno colonizzato imponendo l’elenco dei partecipanti, l’opzione di chiudere o aprire l’audio, la possibilità di condividere lo schermo. Io provo a incastrare il sapere che voglio condividere con gli studenti e le studentesse negli spazi forzati che il servizio che uso mi consente. Parlerei di una professione ridotta a poco più (o poco meno) di un trasferimento di informazioni da uno a molti, perché l’audio acceso significa disturbare l’ascolto. Quindi quando parlo, tutti gli altri sono muti, non sento sulla pelle chi ci sia davvero ad ascoltare, vedo schermi, a volte pieni altre vuoti. Lo stesso vale per gli studenti che, quando prendono la parola, si sentono soli, mi hanno detto. Il riscontro si ha, se si ha, solo dopo che qualcun altro ha chiesto la parola e ha riattivato il microfono. Questo è un setting tecnologicamente modificato. L’organismo della comunicazione non è più bio, è un OGM.

 

 

 In che modo è cambiato l’incontro, operatori-utenti in queste mutate condizioni? 

Potrei rispondere a questa domanda con il concetto illuminante teorizzato da Pierre Lévy che negli anni Novanta parlava di “intelligenza collettiva”. Secondo lui ciò che importa, per un incontro, è la condivisione del pensiero sintonizzato su di uno stesso canale temporale, mentre lo spazio può rimanere virtuale. Ciò che vale sono le idee condivise, inclinate alla cooperazione. Quando lo spazio del pensiero è condiviso, lo spazio reale non è dirimente. In questi termini parlò anche Derrick de Kerckove che con il suo ottimismo parlò di “intelligenza connettiva” facendo riferimento al potere formativo di moltiplicazione di idee favorito dalla connessione digitale. Le due posizioni sono forti, in buona parte le condivido. Non quando gli interlocutori sono minori di dodici anni, troppo bisognosi di formarsi dentro a uno spazio relazionale che condivida aria, emozioni, corpo e pensieri. Quando questo non c’è, non mi verrebbe di parlare di incontro. Parlerei di parziale trasloco bidimensionale di docente e del gruppo di alunni/e dentro una classe virtuale dove restare “fino a nuovo avviso”, come direbbe Bauman, ovvero fino a che non si ritorna alla realtà dell’incontro. Il problema è che stiamo entrando e uscendo dalla realtà senza sosta.

 

Come ha influito tale cambiamento sulla percezione delle lezioni, delle attività, delle figure dei docenti e delle figure educative e del loro ruolo?

Intanto diciamo che la flessibilità è l’abito da indossare perché ti aiuta in ogni circostanza. Siamo sempre pronti a seguire l’orario, le regole, i ritmi, gli intervalli delle lezioni in presenza e poi, rapidamente, appena arriva la chiamata dall’alto, ci spostiamo in quell’altro spazio dove orari, ritmi, intervalli e abitudini sono diverse. Innanzitutto gli studenti sono seduti davanti a un monitor acceso che riproduce in riquadri tipo francobollo tutti gli altri compagni e il docente. La classe si proietta sullo schermo e la si controlla con uno sguardo. Ma manca la vicinanza, l’odore, il chiacchiericcio, la battuta, perfino il sorriso si perde in mezzo a tutti quei pixel. I miei studenti sono ordinati e puntuali. SI connettono all’ora stabilita e in quel momento inizia la lezione che per noi tutti è un vero e proprio dislocamento psicofisico: hanno i pantaloni del pigiama sotto la scrivania ma dal busto in su hanno la felpa e sono in pubblico, a fare lezione. Non so mai, a meno che non controllo – cosa che odio fare – se ci sono o non ci sono e, se sì, per quanto tempo. Il potere di coinvolgimento on line è ridottissimo. Anche se, come dirò dopo, le strategie comunicative attivate sono non poche. Diciamo che il ruolo mio rimane tale perché campa di rendita, quella che ho conquistato in classe. Vivo di riflessi mnestici. I ragazzi e le ragazze (hanno circa tredici anni) dicono di annoiarsi a fare DAD, ma si sono adattati facilmente, purtroppo. La generazione digitale abituata a mangiare pane e internet si accorge ancora poco di cosa sta perdendo.

 

Come è cambiata la partecipazione degli utenti/destinatari ai processi di educazione e di  apprendimento?

Se parliamo di attività off line, posso dire che le occasioni di riflessione, di ricerca e di confronto che vengono date agli studenti animano l’interesse e la voglia di fare: simulazioni di tribunali, agenzie turistiche che offrono ai genitori viaggi on line, scambi di idee sui diritti umani. La tecnologia è varia e offre molte opportunità che sappiamo sfruttare. Ma l’online, il sincrono, è diverso. Come sento i miei alunni se devono avere il microfono spento? Devo chiedere di riattivarlo e allora solo in quel momento parlano, uno alla volta. Gli altri no. Si impongono turni di parola molto severi, il circuito di comunicazione è bloccato. La stasi davanti a un monitor abbassa l’attenzione, il senso di appartenenza, il contatto. Detto questo, da quando le lezioni sono on line abbiamo avuto spesso nuovi partecipanti: i genitori. Nascosti oltre lo schermo, gli adulti spiano e controllano cosa dice e cosa fa l’insegnante, poi gli scrive per complimentarsi, più spesso per criticarlo sui social. Con le video lezioni la classe è entrata a casa e viceversa. La confusione di spazi ne crea uno nuovo, così ibrido da avere effetti collaterali da evitare, tipo i genitori che diventano in parte alunni e in parte insegnanti. E gli insegnanti cosa diventano?  Ve lo dico io: un pomeriggio dopo pranzo, in fase quasi di pennichella, un alunno si è rivolto a me così “Senti, mamma …”.

 

Quali strategie comunicative e relazionali sono state messe in campo durante le attività online? Sono mutate rispetto alle esperienze pregresse?

Gli insegnanti si sono buttati in ogni genere di formazione di didattica digitale, elementare, intermedia, avanzata. Io la uso da anni perché altrimenti la didattica perderebbe innanzitutto la mia stessa attenzione, figuriamoci quella degli studenti. Il metodo della flipped classroom è vincente. Si invia materiale informativo su cui lavorare da soli, in coppia o in gruppo tipo video di storia, interviste a figure politiche di spicco, cronache, poesie, narrazioni, audio. Il materiale viene interrogato a casa e in classe viene elaborato, scambiato, spiegato tramite attività in cui tutti lavorano partecipando. L’obbligo di stare dietro uno schermo ha infiammato il bisogno di avvalersi di tecniche di didattica che favoriscano lo scambio, la condivisione e la collaborazione. Il salto quantico ha prodotto risultati più che buoni con l’aggravante, ripeto, che la vita sta oltre lo schermo.

 

 Quali effetti ha avuto la formazione, l’educazione e l’insegnamento a distanza in rapporto alla “confusione” tra vita privata e vita professionale? 

Come dicevo prima la sovrapposizione dello spazio domestico a quello scolastico per il tramite delle video lezioni ha creato un nuovo “non –luogo”, per usare le parole di Marc Augé, ovvero un ibrido dove vengono rilasciati i segni delle abitudini casalinghe degli studenti e i loro spazi privati come la camera da letto, i poster con i cantanti preferiti, e il privato di noi docenti che, tramite il video, non possiamo evitare che si intraveda l’armadio della sala, il tavolo della cucina, il gatto curioso. Un non-luogo perché lo spazio virtuale dove si intersecano tutti questi segni non ha ancora creato uno spazio creativo e ricreativo dove si ha piacere di stare. La scuocasa o la casuola come le chiamo io sono spazi dove si passa, al massimo si sosta per qualche ora per andare altrove, nessuno lascia dei segni visibili della propria identità. Detto questo abbiamo sangue e cervelli che ci portano anche in luoghi dove sperimentare, comunicare, creare. Resistiamo dentro a questi non-luoghi. Se succede, però, non è grazie a un dispositivo elettronico. A governare il tutto è sempre lei, la passione.

 

Intervista a Cristiana La Capria pubblicata su Pedagogika.it/2021/anno 25/n.2/pp. 11-14

(foto di Izabela Rutkowska)

Cristiana La Capria

Insegna appassionatamente lettere in una scuola secondaria di secondo grado. Si interessa di pedagogia delle differenze e studia il potenziale educativo di cinema e narrativa. Si occupa di formazione degli insegnanti. Scrive saggi e ultimamente testi di narrativa.

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Una risposta

  1. Marco ha detto:

    Grande analisi. Come uno sguardo dall’alto ma capace di guardare il fondo del problema

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