- di Paul Verhoeven, Francia 2016, durata 130 minuti –
Ma che gente siete?
A CHI? A nessuno (tranne che ai followers di implausibili contorsioni psico-sociologiche).
PERCHE’? Per evitare di cadere nella trappola di stereotipi pericolosi travestiti da arte spinta.
IL FILM: La prima inquadratura è nera, buia come le urla femminili avvinghiate al suono tagliente di vetri infranti. Poi l’obiettivo si accende portandoci nel bel mezzo della scena: un’estetica dello stupro che ritrae la donna, vestita di nero, stesa a terra supina mentre l’uomo, vestito di nero e coperto in volto, si solleva dal corpo di lei e esce dalla finestra aperta; il controcampo è dedicato allo sguardo elegante di un gatto, unico testimone, dal pelo dello stesso colore grigio della borsa di pelle della donna; a rompere le tinte in scuro della scena sta il vermiglio del sangue dipinto lungo le gambe della vittima; siamo di fronte a un quadro che lucida con un po’ di brivido e un po’ di interior design , tipico di un appartamento parigino di gran classe, una faccenda raccapricciante. Lentamente, ma neppure troppo, l’evento si ricompone dentro i tasselli della vita della signora francese che trattiene nella memoria quanto le è accaduto; d’altronde il freddo acceso di un volto – che solo Isabelle Huppert poteva interpretare, cova braci che esibiscono un passato traumatico: il papà si macchiò di una straziante carneficina mai spiegata e la figlia, al tempo bambina, ne fu la complice. A nessuno potrebbe sfuggire l’assonanza tra il disturbo psicotico del padre e quello della figlia che, per forza di cose, vive in modo puramente strumentale ogni scambio umano; con il figlio babbeo che crede a ciò che è inverosimile, con la madre narcisista che si compra i giovanotti prestanti, con l’ex marito, fiacco e immaturo, con il marito dell’amica a cui ruba qualche sgangherata prestazione sessuale e anche con i collaboratori che la supportano nella realizzazione dell’unico mestiere che poteva scegliere, ossia la realizzazione di videogiochi a sfondo pornografico. Ma, alla fine, chi era l’uomo che l’ha stuprata? Ovviamente è il vicino che, come ogni thriller che si rispetti, torna sempre sul posto. La seconda ma principale domanda è: perché sto vedendo questo film? Si può reggere una rappresentazione disturbante quando essa è in grado di accendere lampi di pensiero e di desiderio inediti o censurati, ma in questo caso la sofferenza è stata duplice: la voglia di scappare da una condizione di violenza elegante messa in campo sullo schermo senza sosta e la rabbia provata nel vedere ancora circolare e, soprattutto, premiare testi filmici che esibiscono plot che succhiano alla fonte della perversione, del pornografico travestito da eros drammatico, dal disagio psicologico, del mistero. Il noir seducente che ritrae donne violentate da compagni e padri, raffinatamente squilibrate e donatrici di corpi dati in pasto allo sguardo famelico o rattrappito di vecchi e giovani spettatori, è ormai fuori tempo massimo. Non si affaccia nessun rimando, neanche velato, ai diritti delle donne, perché alla fine il tutto si risolve in un mistero psichiatrico. Il film è una strada cieca, senza speranza, senza poesia, senza potere formativo, eppure si carica di molta e ben manovrata malizia che, invece di denunciare il disagio, lo ritrae con compiacimento, facendo passare un serio disturbo esistenziale per un macabro atto di violenza che neppure il gatto ha gradito. Dopo la prima sequenza, infatti, il felino grigio è sparito dalla scena. Ha fatto benissimo!
Cristiana La Capria
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