di Cristiana La Capria –
E’ del 15 maggio 2013 la notizia della BBC sulla nuova invenzione di Google: gli occhiali computerizzati. Si tratta di un dispositivo elettronico minuscolo che si indossa come un paio di occhiali e consente ad uno dei due occhi di osservare attraverso il piccolo monitor posizionato ad altezza della pupilla lo schermo di un microcomputer che proietta le immagini in esso riflesse. Io posso domandare al computerino che ho davanti agli occhi mentre sto guidando di indicarmi il tragitto che mi porta a casa, ed ecco che mi appare la mappa precisa dello stradario, oppure posso chiedere di scattare una foto del simpatico ragazzo che cammina davanti a me e subito con un click avrò l’immagine che ho richiesto. Non ho bisogno di usare le mani, tutto è a portata di voce.
Questo fenomenale dispositivo, già anticipato nei libri e nei film di fantascienza degli anni Ottanta, è ora realtà e in meno di un anno potrà essere lanciato sul mercato di massa e diventare parte del set di accessori che ci portiamo appresso ogni giorno alla modica cifra – per ora – di 1.500 dollari.
La notizia mi ha spinta a pormi delle domande sul rapporto tra tecnologie ed istruzione. Quale delle due precede l’altra? E’ inutile dire quello che sappiamo bene: è l’istruzione che segue, spesso affannando, i sempre nuovi ritrovati delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione che anticipano bisogni, persino desideri e sogni della società su cui si innestano. Il punto è che di solito il mondo dell’educazione e dell’istruzione si mette in moto sempre dopo e lo fa provando ad adattare la sua propria forma a quella delle tecnologie introdotte sul mercato. Lo vediamo con l’insegnante che spesso si muove di sua propria iniziativa per aggiornare le sue competenze digitali, per tenersi dietro ai tempi e allo stile di apprendimento che quelle nuove tecnologie richiedono. Tempi e modi che saranno ovviamente imparagonabili a quelli supersonici delle generazioni a cui fa da insegnante.
Da un lato la scuola e i suoi docenti non hanno scampo, non possono evitare le tecnologie dell’informazione e della comunicazione che, galoppando, tagliano sempre nuovi traguardi come l’introduzione delle chat per comunicare con studenti e studentesse, del registro elettronico per annotare quanto accade in aula e per rendere consultabili le valutazioni, dei colloqui con i genitori via skype, della didattica con la LIM; tutti questi sono dispositivi ormai stanziati nelle prassi di buona parte delle scuole. Sappiamo bene che ogni tecnologia porta con sé una visione sociale e culturale ben precisa del sapere e delle relazioni, conosciamo bene il valore positivo e negativo di ogni dispositivo introdotto nel sistema di istruzione. Ma ciò non basta, secondo me. Non basta tenersi fuori, non basta farsi trascinare dentro. Ci vorrebbe un incontro equilibrato tra il senso che il mondo della scuola assegna al compito educativo e le forme che poi adopera per attivarlo. Se abbiamo in progetto una certa linea educativa dobbiamo poi sapere gestire e orientare gli strumenti tecnologici di cui ci avvaliamo, senza farci manipolare da loro. Da circa un anno, ad esempio, domina l’irrisolta questione dell’uso selvaggio che si fa dello smartphone in classe: chi dice sì ma solo ai fini didattici, chi dice no in assoluto, chi dice che è meglio fare finta di niente. La questione rimane urgente e tra poco se ne prepara un’altra e riguarda un dispositivo che ormai non devi più neanche mettere in tasca perché lo indossi, come un paio di occhiali. I Google glass saranno parte di noi, del nostro corpo, davvero una protesi dei nostri occhi e del nostro cervello come ha sempre anticipato de Kerckhove .
Mentre osservo la strada che percorro con l’occhio sinistro, con quello destro sto vedendo un videoclip di danza classica; e così mi moltiplico, mi fraziono sempre più in distribuite azioni percettive, evitando però il contatto, perché le mani non mi serviranno più, la sola voce darà le indicazioni al mio occhio elettronico.
Su questo noi insegnanti abbiamo molto da riflettere. Molto.