Viola Ardone, Il treno dei bambini, Einaudi 2019 p. 200
1946 – Quartieri Spagnoli – Napoli, Amerigo ha una mamma, non cerca il padre, ha le scarpe consumate, bravo con i numeri, ma non con le lettere, “non vuole rimanere tutto il tempo fermo e zitto dietro a un banco”, lascia la scuola, va a lavorare, ma la fatica gliela fa rimpiangere. E poi la svolta, Maddalena, una famosa donna della Resistenza, nel quartiere Sanità, si occupa con il suo Partito delle famiglie povere e offre ai bambini un’opportunità, andare al Nord, destinazione Bologna e città vicine, presso famiglie, godere di un benessere che al Sud non si poteva neanche immaginare, scarpe nuove, cibo e cure.
La narrazione procede come lo sguardo di un bambino che riconosce meglio le differenze, i contrasti, le opposizioni, che ama le cose nette, visibili, forti e meno il dubbio, la contraddizione, la sintesi.
Fa da controcanto il Coro dell’ignoranza che si nutre di pregiudizi e alimenta paure. Fortunatamente la guerra è finita e i Comunisti, quelli che il coro urla che mangiano i bambini, mostrano invece valori quali accoglienza, solidarietà e amore per il prossimo. Amerigo si troverà sul treno, addolorato per essere stato abbandonato dalla madre e terrorizzato da quelle cattive voci del Coro che gli hanno paventato torture, morte e lager in Siberia. Solo conoscendo, scopre lo stupore, la bellezza delle differenze e le contrapposizioni si diraderanno, il Sud non sarà lontano dal Nord, la scuola non precluderá il lavoro, l’affetto non si ridurrà, ma si sommerà e due famiglie saranno meglio di una. Il ritorno è difficile, deludente: il silenzio affettivo della madre, una vita che si ripropone come quella lasciata, di fatica e priva di futuro.
Amerigo al suo sogno non vuole rinunciare, ha imparato a suonare e la musica è diventata la sua passione, il ritorno sarà un non ritorno. Napoli rimane nella sua anima, ma la sua anima non sarà più di Napoli