L’AMAVO PIU’ DELLA SUA VITA
di Cristina Comencini, Italia, 2012. durata min.23
Impressioni di Irene Fabbri, studentessa del liceo classico e linguistico “Aristofane” di Roma:
Sono le 21 e al Teatro Italia a Roma, si spengono le luci di fronte a una platea di ragazze e ragazzi delle scuole superiori. Ci sono due persone sul palco, un ragazzo e una ragazza. Lei è completamente vestita di nero, ha la rabbia negli occhi e la paura nel corpo. Lui la paura ce l’ha negli occhi e nel corpo, mentre la rabbia che si agita da qualche parte nella sua testa fa a pugni con il senso di colpa. Le loro parole sono bloccate nella gola, come macigni; ora come non mai si rivelano inadeguate a raccontare la realtà, ma restano l’unico strumento disponibile per interpretarla. Tutti e due hanno “bisogno di parlare ancora”, e stanno racimolando le forze per farlo. Parlare di cosa? Il migliore amico di lui ha ucciso la migliore amica di lei, la sua ragazza, che lo stava lasciando. Succede ogni tre giorni in Italia, ma di solito succede sui giornali, non nel mezzo delle nostre vite, non con coppie che sembrano del tutto normali. “Lui diceva che l’amava, che non avrebbe potuto vivere senza di lei”“Lei diceva che i suoi silenzi le pesavano. Voleva lasciarlo ma non voleva fargli male”. I due migliori amici non credono alle parole dei giornali, sanno che non c’è stato nessun raptus di follia, nessuna passione accecante, niente che possa meritarsi il nome di amore. Cos’è l’amore? Il loro è un discorso frammentato, faticoso, che rischia ad ogni parola di concludersi perchè lo sgomento è grande, ed è ancora più grande la paura di scoprire che quei due avrebbero potuto essere lei e il suo ragazzo, o lui e la sua ragazza. Probabilmente anche loro avrebbero avuto una famiglia stravolta e una madre che li avrebbe ricordati come se fossero ancora bambini, dicendo dell’assassino: “Per me è come se fosse morto”. Per la ragazza una donna è remissiva, una donna cerca sempre il conforto nell’altro, non vuole farsi odiare, è compassionevole e pronta a sobbarcarsi ferite che non si merita, e a pensare di meritarsele. Per il ragazzo un uomo è una persona sensibile e fragile, ma allo stesso tempo lucidamente capace di violenza e di sopraffazione, capace di diventare un mostro senza sentirsi tale, anzi sentendosi in parte giustificato dai suoi cromosomi sessuali xy a farlo. Hanno bisogno di parlare, di capire, di capirsi, di trovare un rapporto uomo-donna che non sia quello vittima-carnefice. Finisce lo spettacolo. Quarantacinque minuti di interrogativi profondi, quarantacinque minuti a cercare risposte e definizioni. Ti rendi conto che parlare di femminicidi è importante, che forse è vero che nell’educazione di una donna sia insita l’educazione ad essere vittima, e che quella di un uomo sia infettata dal germe che fa diventare carnefici. Ti rendi conto che forse un po’ di lui e un po’ di lei sono parte di te. Eppure, c’è qualcosa che stona. Come se la melodia corresse su canoni prestabiliti, su stereotipi. Ti chiedi se sia possibile parlare di femminicidio senza ricorrere a una lei debole e fragile, e a un lui riflessivo, pacato, insospettabile ma violento.
Pensi a Stefania Noce, la ragazza femminista catanese uccisa a 23 anni dal suo ex nel dicembre 2011. Pensi che prima di essere uccisa scriveva “ancora nel 2005, una donna violentata “avrà avuto le sue colpe”, “se l’è cercata” oppure non può appellarsi a nessun diritto perché legata da vincolo matrimoniale al suo carnefice.” e anche “nessuna donna può essere proprietà oppure ostaggio di un uomo, di uno Stato, né, tanto meno, di una religione.”
Pensi alle migliaia di uomini che si sono uniti all’associazione Maschile Plurale, che tra le sue finalità ha “impegnarsi pubblicamente e personalmente per l’eliminazione di ogni forma di violenza di genere, sia fisica sia psicologica;” e anche “facilitare una svolta nei comportamenti concreti di ciascuno, con le proprie diverse soggettività”.
Perchè non dire che una donna forte può essere vittima di violenza? Perchè far intendere che comunque ogni uomo è, per natura o per la sua educazione, potenzialmente un mostro?
Pensi a One billion rising, alla rabbia che ha fatto esplodere l’iniziativa, alla frustrazione che ha portato milioni di persone ad aderirvi ma ricordi anche la gioia delle danze, la moltitudine di vestiti rosso-speranza e di mani puntate verso il cielo.
Perchè non parlare di più di come cambiare il presente? Perchè non prospettare una via di uscita?
Non c’è dubbio: c’è bisogno di parlarne ancora.