Lui
da Cristiana La Capria
Mi sono svegliata presto, oggi, per fare delle analisi del sangue. Stanotte ho dormito poco e mi sentivo particolarmente debole. Ma, uscita dall’ospedale, il sole che riscaldava le strade mi ha invitata a fermarmi davanti alla bancarella di un mercatino a colori. Rimango attratta da un maglioncino celeste esposto in prima fila e decido d’impulso di comprarlo. La venditrice, una signora già stanca alle 9 del mattino, mi invita con voce grigia e sottotono a raggiungerla dietro il bancone per pagare. Non trovando una via di accesso al posto mi fermo, spaesata. Poi una voce brillante, accogliente di un ragazzo richiama la mia attenzione, “Prego signora,” mi dice e con gesto ospitale si inchina appena e ruota il braccio con galanteria, ad indicarmi la direzione giusta. Grata, lo guardo negli occhi e gli sorrido. In un nanosecondo mi si stampa il suo ritratto nel cervello. E’ lui. Lo conosco, lui è un mio alunno, cioè lui è stato un mio alunno. Mentre procedo verso la cassa dove mi aspetta la signora per il pagamento provo a recuperare il suo nome. Non me lo ricordo. Però mi ricordo di lui, che dormiva con la testa riversa sul banco mentre spiegavo la lezione, con le cuffie nelle orecchie a sentire musica sudamericana, lontano dal resto della classe. Me lo ricordo di avere parlato con la mamma per chiederle di aiutarmi a fare partecipare il figlio allo studio, me lo ricordo che lei mi guardava con quegli occhi impietriti dalla stanchezza perché si svegliava alle 5 del mattino per fare le pulizie nelle case degli altri e chi lo vedeva il figlio se non la sera tardi. Lui, con quegli occhi neri, faceva svenire tutte le sue coetanee che all’intervallo lo accerchiavano e lui le faceva ridere e le corteggiava come piaceva a loro. Ma lo studio non gli piaceva, me lo ricordo. Una volta aveva fatto un bellissimo lavoro e io avevo capito che era uno molto, molto intelligente. Ma non aveva voglia di venire a scuola. Un giorno smise. Mi dissero che era andato a lavorare. Eccolo. L’ho trovato. Tra le bancarelle. Finito di pagare alla cassa mi sono voltata per uscire dal retro del bancone e lui è ancora là al varco, fermo, come ad aspettarmi. Non riesco ad essere spontanea, a sorridergli e dirgli che mi ricordo di lui. Secondo me anche lui si ricorda. Non ce la faccio. E’ che mi sento in colpa per non essere riuscita a trattenerlo, ad aiutarlo a vivere la scuola con almeno un poco di piacere. Ho sbagliato con lui e vederlo me lo ha ricordato. Ritorno sui miei passi, incrocio la sua figura ma scavalco il suo sguardo. Lui saluta. Io saluto. Eppure non mi volto indietro. Mi sento una vigliacca, perché avrei dovuto dirgli che mi ricordavo di lui, anche se il suo nome è svanito dalla memoria. Che mi fa piacere sapere che si è trovato qualcosa da fare. Anche se caricare e scaricare dalla strada la merce all’alba è un lavoro tosto. Avrei dovuto dire alla venditrice che quel gentile ragazzo con i capelli nerissimi è stato mio alunno, io ero la sua insegnante. Ma non l’ho fatto.