La sveglia mi allarma la mattina molto presto, spezza lo spazio del mio morbido nulla, è un tonfo cardiaco mica da ridere a scuotermi, allora risalgo con la coscienza al posto dove sono distesa. Mi prendo alcuni minuti per trovare il coraggio di mettermi su, un paio di lunghi respiri, un paio di rotazioni delle braccia e del collo e mi sollevo. Spalanco la finestra, è buio pesto, l’odore dolciastro delle foglie gialle penetra nelle narici, mi spingo nel bagno. Accendo la radio sul canale dove si divertono a trasmettere musica fatta da violini, un suono triste, ma lo conservo, sono masochista. La luce sullo specchio chiama la mia attenzione ma faccio finta che non l’ho vista; nessun coraggio di guardarmi senza prima usare l’acqua. Scorre gelata dai tubi e la getto copiosamente addosso alle guance, alla fronte, sugli occhi. Eccolo, arriva il fremito di energia, ora sento che si diffonde fino giù ai piedi e risale alla testa, dentro ai pensieri. Ora mi ricordo: sono un’insegnante. Sono le sei e quarantacinque minuti e devo andare a scuola .Ma quale scuola? Lo specchio richiama ancora la mia immagine, ci sprofondo dentro e la vedo, mi vedo, ma chi vedo? Vedo un’immagine dagli occhi bruschi, le guance pallide, nessun sorriso.
Ma perché, specchio, non mi piace più la mia immagine? Perché mi hanno fatta diventare una funzionaria che compila scartoffie, progetta interventi didattici, mette in scena performance digitali ma ha dimenticato la letteratura italiana del Quattrocento? E anche del Seicento?
Perché, specchio, non posso più insegnare ciò che ho studiato, il sapere che mi appassiona per fare spazio alle competenze di studenti a cui devo propinare in pillole brani spezzati di antologie tristi?
Perché devo calcolare al centimetro la corretta esecuzione del piano di lavoro e non mi dedico più come un tempo ai giochi di ruolo, ai lavori in cerchio, agli scambi di avventure fuori dalle mura?
Lo faccio poco, molto meno di prima. Perché ho l’ansia di essere controllata e giudicata?
E come posso io garantire attenzione ai singoli bisogni degli studenti e delle studentesse, ridurre i tempi di uno, ampliare quelli dell’altra, proporre lavori speciali a destra e a manca se sono da sola in aula? Se non riesco a farlo bene, è mia la colpa?
Tutti commentano, valutano il mio modo di valutare: i genitori, gli alunni, le alunne, il dirigente, i giornalisti, i cantanti, le veline. A quale fine?
Spesso, caro specchio, i pomeriggi inoltrati, le notti fonde passate a preparare campi di esperienza per le mie classi vanno in fumo quando, nel tempo previsto con la classe, arriva in aula l’esperto di turno a fare interventi di prevenzione sul bullismo, a insegnare come comunicare con i compagni, come scrivere sul pc, come rispettare l’ambiente. A breve, secondo me, gli sportelli degli psicologi saranno occupati anche da neurologi e psichiatri. Ma in mezzo a tutti questi esperti nella scuola io, allora, di cosa sono esperta?
Non ho ancora sentito dalla voce di un mio studente o studentessa, a cui ogni anno chiedo cosa vorrebbe fare da grande, la parola: insegnante. Perché?
Sono i media, i social network, le rappresentazioni socialmente condivise ad affossare l’immagine del docente? Che ha perso fascinazione, ha perso inventiva, ha perso slancio. Io, almeno, ho perso tutto questo.
Specchio, perché non mi rispondi?
Specchio delle mie brame, io sono una delle tante insegnanti del reame che vorrebbe capire come fare per rianimare la sua immagine e a recuperare il cuore del suo sapere, frantumato in polvere sottile per nutrire delle poco chiarificate competenze in nome di un ancor meno chiarificato futuro lavorativo.
Ma tu non rispondi.
Ho capito, non sono la più bella del reame. Non sono neanche la strega di Biancaneve. E neppure Biancaneve.
La mela però me la mangio mentre vado a scuola perché non farò neanche colazione, è tardi, mi hai fatto parlare tutto il tempo da sola. E speriamo che il Ministero della Pubblica Istruzione non sia uguale a te.
Cristiana La Capria